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Maurizio de Giovanni

  • libridinelab
  • 30 mar 2016
  • Tempo di lettura: 1 min

E' una stanza in fondo a un corridoio. L'ultima porta, non ci si capita, bisogna volerci andare apposta. Si apre con la chiave, si spalanca la finestra per far entrare un po' d'aria. E' aria diversa, meno gas di scarico e più letame di cavallo; e diversi sono i rumori, si sente picchiare su un'incudine, c'è qualcuno che fa esercizi a un pianoforte e una radio trasmette ballabili eseguiti da un'orchestra. Si sgombera la scrivania da quello che non serve. Resta un fermacarte in metallo pesante semifuso, forse un pezzo di proiettile di mortaio della prima guerra. La luce è strana, sembra un pomeriggio di fine ottobre. Il ricordo dell'estate, la promessa dell'inverno. In strada si vede un gruppo di scolaretti col grembiule nero che corrono verso casa. Lo sento arrivare mentre sono affacciato. Alle mie spalle, senza fare rumore. Si siede sulla sua poltrona, accavalla le gambe e intreccia le mani sotto il mento. Fa sempre così. E' la nona volta. Non mi volto. Sorrido. Sono contento di incontrarlo ancora, anche se ho una leggera inquietudine per quello che mi dirà. Se me lo dirà. Non mi volto, continuo a guardare la strada in ottobre. La radio non suona più. Il pianoforte smette con le scale e comincia una canzone che conosco bene. Un uomo canta: si 'sta voce te sceta int'a nuttata... Dimmi, commissario. Comincia pure. Io ti ascolto.

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